Parole rare, letterarie, obsolete: le loro storie
Cenni a parole sopravvissute
Il cambiamento linguistico è simile a quello geologico: avviene con tempi così lunghi che superano quelli della vita di un individuo. Nessuno di noi vedrà l'erosione totale di una catena montuosa e il suo mutamento in un canyon, ma è sempre possibile scorgere qualche sassolino staccarsi e rotolare giù.Noi siamo testimoni dell'ingresso di parole nuove nel lessico dell'italiano: del resto questo tipo di innovazione non passa inosservata. Invece è necessaria una certa attenzione per notare quelle parole che, lentamente, quasi di soppiatto, escono di scena.
Se il mutamento linguistico è un percorso che copre secoli, i fenomeni che lo comportano sono questione di pochi anni, di generazioni tutt'al più.
Molte sono le parole che ci hanno lasciato, e altrettante lo stanno per fare. Inevitabilmente alcune espressioni non sono state salvate dalla tradizione, completamente ignorate ormai persino dal vocabolario e dai lessicografi. Ma molte altre, invece, non sono morte del tutto; invecchiate sì, ma non dimenticate. E per questo sono ancora in grado di dirci qualcosa, perlomeno di raccontarci le loro storie. Perché le parole hanno sempre una storia e, come vedremo, a volte è anche affascinante.
È il caso di Dante quando scrive piaggia per dire "pendìo", o calle per "sentiero". In questo caso i classici della letteratura si comportano come l'ambra col fossile: cristallizzano e conservano fino a noi quello che potremmo chiamare "fossili linguistici". Quante parole sarebbero scomparse, se non fosse stato per certi autori che le hanno fissate nelle loro opere, salvandole.
Altre parole, rinnegate dal lessico comune, hanno trovato riparo a livello regionale, pur con qualche compromesso. Doccio un tempo indicava la "grondaia", ora sopravvive solo in Toscana, ma col significato diverso di "cannella di una fontana".
Ci sono parole che vengono rimosse completamente, come indelibato "vergine", e parole che perdono solamente alcune delle loro accezioni, ma che resistono con altre. Partito, che mantiene vitale il senso di "associazione politica", viene meno nel significato di "decisione", ed è decisamente crollato nell'accezione di "votazione".
Storia di una parola risorta
Nel GRADIT (Grande dizionario italiano dell'uso), sono circa 55.000 le parole contrassegnate come obsolete, letterarie, o rare. Insomma, 55 mila parole che se la passano male, che ci stanno per lasciare. Ma è bene dire una cosa: non tutto quello che sembra perduto è veramente irrecuperabile. In altre parole: a volte ritornano.Rimonte clamorose hanno visto espressioni che si pensava inevitabilmente spacciate, risorgere e imporsi sulle concorrenti.
È il caso di una parola che in questo articolo compare ben due volte, e una di queste è nel titolo! Il fatto che sia passata inosservata come credo, che non abbia suscitato una qualche perplessità nel suo uso, basta a testimoniare la rivalsa della parola obsoleto.
Obsoleto non è certo una parola che utilizziamo ogni giorno, ma è certamente ancora presente, ancora viva. Eppure, tanto tempo fa se l'era vista brutta.
Nel 1877 i lessicografi Pietro Fanfani e Costantino Arlìa scrivevano a proposito di obsoleto:
«Latinismo che adorna certi scritti che vogliono parere di stile solenne e sostenuto, ma in fondo son robaccia che non ne mangerebbero neppure i cani. Dunque lascia Obsoleto a' pedanti, e a coloro che hanno l'orecchio foderato di prosciutto, e serviti in quella vece di Dismesso, Disusato, Vieto, Rancido, Antiquato.» [Lessico della corrotta italianità, cit. in Scavuzzo 1994, 469]
Non so a voi, ma a me Disusato e Vieto paiono un po', come dire, obsoleti!
Eppure non sempre le parole trovano la forza, ma soprattutto le condizioni, per risorgere. Forse per questo motivo una iniziativa proposta dalla Società Dante Alighieri esorta gli utenti stessi a rispolverare il proprio ripostiglio linguistico rivitalizzando parole a cui si è affettivamente legati e che stanno cadendo in disuso.
Ai vertici della classifica delle parole da salvare compaiono:
- solluchero;
- smargiasso;
- pusillanime;
- giulivo;
- gaglioffo;
- malandrino.
Prendersi gioco delle parole vecchie?
Se anche domani uscisse un decreto legge per il quale tutti gli italiani dovessero pronunciare almeno una volta al giorno indelibato, la parola certo svolazzerebbe per tutta la penisola, ma non avrebbe alcun sedimento. Oltre a ciò, resuscitare parole desuete porta con sé un'inevitabile accezione ironica, quasi scherzosa.
Se in una normale conversazione dicessi seriamente: "Sei un malandrino", per quanto serio, il massimo della reazione che potrei ricevere sarebbe una sincera risata.
E chi non sospetterebbe un qualche sottinteso, una qualche ironia, se dicessi: "Lo so che sei indelibato/a".
In definitiva si tratta di giocare con roba morta, snaturare, togliere dignità a quelle espressioni che un tempo erano considerate anche preziose.
Quindi è meglio lasciar morire certe parole, piuttosto che recuperarle burlandosi di loro?
A tal proposito, spero con attinenza, mi torna in mente quel personaggio nel Nome della Rosa di Eco: il venerando Jorge da Burgos che voleva proibire ad ogni costo la diffusione del trattato di Aristotele dedicato al riso, poiché riteneva la risata un sintomo di decadimento.
Se l'unico modo per evocare il passato (in questo caso le parole) è la parodia, lo scherzo, allora siamo di fronte a una forma di decadimento? Ma come si può dire decadimento, è anche vero che si può scegliere di dire innovazione, progressione, liberazione, emancipazione!
E allora, a costo di essere dei malandrini, prendiamoci pure gioco di quelle parole che ci stanno per lasciare, perché non c'è nulla di meglio che dire loro addio, che con un bel sorriso giulivo.
[Tutte le informazioni e gli esempi di questo articolo sono tratti da Massimo Palermo, Linguistica Italiana, Il Mulino, 2015, pag 139.]
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